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PERCHÈ I NOSTRI FIGLI SI VOGLIONO UCCIDERE?

Immagine del redattore: alespedicatialespedicati

Aggiornamento: 26 gen 2021

Sono cresciuto in quella che, per la mia generazione e per quelle precedenti alla mia, era una famiglia normale: mio padre aveva un impiego statale e mia madre faceva la casalinga.

Il casalingo o la casalinga, di fatto, non esistono più. Oggi li chiamiamo disoccupati.

Mia mamma tutto si poteva sentire, ma non proprio disoccupata.

Con due figli piccoli, la sua vita era oltremodo piena. Era la prima ad alzarsi la mattina e l’ultima ad andare a letto la sera. La casa era sempre perfetta e non mancava mai nulla. I nostri vestiti erano perfettamente stirati, anche se lei ha sempre odiato stirare. Ci portava a scuola e a fare sport, ci accompagnava dal pediatra e dal dentista, andavamo a fare shopping (allora si diceva “compere”) e amministrava le scarse economie senza mai farci mancare ciò che riteneva essenziale.

Ogni tanto ci potevamo anche permettere qualche piccolo lusso: una gita, una pizza, il cinema. Ma il lusso più grande che la mia famiglia mi ha concesso è quello di essere stato educato con amore.

Ci tengo a premettere che la mia estrazione sociale e culturale è inquadrabile come medio-bassa. Mio padre e mia madre, se vogliamo, potevano essere anche lontani dal rappresentare la coppia perfetta o dall’essere genitori infallibili, ma avevano dalla loro parte un’arma molto potente: il tempo.

Io e mio fratello non abbiamo mai fatto il tempo pieno a scuola, non abbiamo passato mai nemmeno un minuto con una baby-sitter, abbiamo sempre pranzato e cenato tutti insieme, così come guardavamo insieme la tivù dopo cena e passavamo insieme il fine settimana.

Ho ragione di credere che la stragrande maggioranza dei miei coetanei, in Italia, abbia dei ricordi molto simili.


La società, da allora - e in tempi brevissimi - ha subito cambiamenti radicali. Uno di questi cambiamenti è la percezione della povertà.

I miei genitori non si sentivano certamente ricchi, ma non si sentivano nemmeno poveri. Ovvio, la macchina e la cucina si compravano a rate e per la vacanza estiva si risparmiava tutto l’inverno.

Appartenevamo alla fetta grossa del paese: eravamo la classe media.

Riconoscersi in un così ampio e variegato strato sociale, ci dava una certa sicurezza. Ci faceva sentire, nel limite del possibile, normali. E più eravamo normali e più eravamo felici.

Poi è accaduto qualcosa. Forse attraverso la televisione e la pubblicità o forse attraverso il linguaggio, non so. Ma qualcosa deve essere sicuramente accaduto. Perché, una volta cresciuti e trovata la nostra primordiale indipendenza, ad un certo punto abbiamo iniziato a sentirci poveri. Ma non solo noi, tutti quelli come noi.

Iniziammo ad essere circondati da macchine costose, da seconde case al mare, da settimane bianche. E poi da telefoni cellulari, da televisori con gli schermi piatti collegati ad antenne paraboliche, poi da vestiti di marche che noi non conoscevamo ma che, da come venivano esibite, dovevano essere molto importanti e costose.

Lo so, sono cose alla portata di molti di coloro che stanno leggendo questo blog, oggi. Ma quando tutto questo cominciò, erano tutte leve in grado di smuovere profondamente le viscere di quella famosa classe media.

Lo standard di sobrietà a cui eravamo abituati, non era più sufficiente per sentirci normali. Bisognava guadagnare di più per non dover rinunciare a nulla di quei nuovi beni essenziali di una società che si stava ridisegnando.

E per fare più soldi, abbiamo iniziato a lavorare di più. E tutti. Genitore uno e genitore due. Raddoppiare gli stipendi per poter spendere il doppio, lavorare un terzo in più delle ore per potersi permettere i lussi che questo nuovo modello ci garantiva come a portata di mano.

In tutto questo non abbiamo rinunciato alla struttura della famiglia tradizionale: il matrimonio (o la convivenza), la casa, i figli.


Io in tutto il mio stile, nel 1977.

Ed ecco che oggi ci ritroviamo a rincorrere uno standard di benessere, spesso al di sopra delle nostre possibilità, per permettere alla nostra famiglia e ai nostri figli di possedere degli oggetti, di indossare dei capi e di fare delle esperienze che rientrino negli standard oramai consolidati per la nuova classe media.

Telefoni molto costosi, consolle, scarpe e vestiti firmati, oggi sono il nuovo standard anche per le famiglie che un tempo si consideravano povere. La classe media oggi, in più, deve anche viaggiare, frequentare ristoranti gourmet, fare la spesa biologica e allenarsi in palestre confortevoli.

Tutte cose che fino a pochi decenni fa erano appannaggio di quelli che la mia famiglia avrebbe definito “i ricchi”.



Nel frattempo i nostri figli ben vestiti e tecnologicamente al passo con i tempi, hanno iniziato a lanciare qualche segnale che, col passare degli anni, si è fatto sempre più forte, fino ad assumere il volume di un allarme.

Ansia, attacco di panico, sociopatia e autolesionismo, erano parole chiuse in un vocabolario, per l’italiano medio, quando io ero bambino. Oggi vengono ampiamente utilizzate negli articoli, nelle ricerche e nelle statistiche che riguardano soprattutto (ma non esclusivamente) la generazione dei nostri figli.

Quella, per intenderci, alla quale abbiamo dato tutto. O quasi. Sì, direi quasi, perché effettivamente qualcosa gliel’abbiamo negata: per esempio il tempo.

Ci sono tante forme in amore quanti sono i momenti nel tempo, diceva Jane Austen. Ed è meravigliosamente vero.

Quando ero più giovane mi ero anche io fatto illudere dalla frase “non è la quantità di tempo che passiamo con i nostri figli, che conta, ma la qualità”. Per poi scoprire che mai cazzata fu meglio travestita da perla di saggezza. Perché l’amore ha bisogno di tempo, e tanto, per poterlo imparare in quante più forme possibile.


La solidità emotiva si costruisce nel tempo e con il tempo. Un tempo lungo che ci deve permettere di entrare in confidenza con molte forme di amore. L’amore è come il mare, ti ci puoi immergere ma puoi anche annegarci dentro. E proprio come il mare, l’amore dobbiamo imparare a viverlo quando è calmo e sapere come gestirlo quando è in tempesta. Dobbiamo saperlo attendere quando ci sembra lontano e dobbiamo saperne godere a pieno quando lo abbiamo vicino.

E per poter trasmettere ad un figlio tutto questo, ci vuole tempo. E ci vogliono energie.

Tutto l’amore genitoriale che portiamo dentro di noi non si può elargire in poche ore alla settimana, spossati da una stanchezza innaturale. Ha bisogno di aria, di essere diluito, di essere decompresso, di essere maneggiato con cura. E per essere delicati, bisogna essere forti, riposati.

L’amore dà il suo meglio nella serenità della mente e nella forza del corpo. L’amore, nella stanchezza, si trasforma presto in frustrazione. Può diventare addirittura un peso. Un peso che scarichiamo a bomba sulle fragili spalle dei nostri figli. Ragazzi a cui non abbiamo dedicato tempo per insegnare loro a nuotare nel vasto mare dell’amore e che si ritroveranno presto ad annegarvisi dentro.


Ora, travolti da una pandemia, vengono fuori tutte le falle di questo scambio tempo-amore. Di questo baratto che ci ha illuso di poter dare ai nostri figli ciò che noi non abbiamo potuto avere, in cambio di qualcosa che noi abbiamo avuto in abbondanza.

E così loro sono arrivati deboli a dover affrontare il momento più duro. Non sanno riconoscere l’amore, lo subiscono come un grido disperato in una lingua sconosciuta.

I tentativi di suicidio e autolesionismo sono aumentati del 30%. “Dal mese di ottobre ad oggi, quindi con l’inizio della seconda ondata, abbiamo notato un notevole rialzo degli accessi al pronto soccorso con disturbo psichiatrico, nel 90% sono giovani tra i 12 e i 18 anni che hanno cercato di togliersi la vita - ci spiega -. Se nel 2019 gli accessi al pronto soccorso erano stati 274, nel 2020 abbiamo superato quota 300.”

Questi sono i dati condivisi da Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Psichiatrico Bambino Gesù di Roma.


Ora, io non sono uno psicologo né tantomeno un neuropsichiatra. Però ho come la netta sensazione che tutto questo sia fortemente collegato e che dovremmo seriamente riflettere su questi dati.

Certo, oggi non è più pensabile una struttura familiare nella quale l’uomo lavora e la donna sta a casa. La crescita del lavoro femminile ha determinato passi avanti necessari per la formazione di una società più equa. E molti passi sono ancora da fare.

Forse allora dovremmo incominciare a progettare un mondo nel quale si lavora meno e si consuma con più intelligenza e consapevolezza. Forse dovremmo rivedere i meccanismi del welfare, prendendo esempio da paesi nei quali essere genitori è più semplice, nei quali non si ha paura di fare figli prima dei trent’anni, quando sei pieno di quella forza necessaria per essere un genitore presente.



Come padre mi sono già pentito di diverse scelte che ho fatto, ma una più di tutte: aver fatto fare il tempo pieno alle scuole primarie a mio figlio.

Credevo di non avere scelta. Io e la madre abbiamo pensato che fosse la soluzione migliore per favorire una maggiore elasticità negli orari di lavoro. Più tempo da investire nel mio lavoro, più guadagni per poter permettere a mio figlio di possedere cose che io non avevo mai avuto.

Nel frattempo mio figlio, fra i 4 e i 10 anni ha passato 8 ore al giorno, per 5 giorni a settimana, per 9 mesi all’anno, in un luogo che non era la sua casa, in compagnia di persone che non erano i suoi genitori, mangiando cibo tiepido e di pessima qualità in una mensa scolastica. A ripensarci ora, mi viene male allo stomaco.

Per quanto ci sia stato un grande sforzo a compensazione di quel tempo non passato insieme, mi rimarrà per sempre il vuoto di quei pranzi e di quei pomeriggi in cui non ci siamo potuti abbracciare, annoiare, litigare, ridere, giocare, stare ognuno per conto suo, guardare cartoni, piangere.

Un tempo che non tornerà mai più e per il quale, nel silenzio delle mie scelte quotidiane, ogni giorno, gli sto già chiedendo scusa.

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