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IO LI HO VISTI IN FACCIA

Aggiornamento: 25 gen 2022

Capita, così, ogni tanto. Soprattutto una volta superata quella fantomatica “certa età” dopo la quale iniziano ad accadere delle cose.

Tipo aprire gli occhi alle 6:30 del mattino senza una sveglia; dire di no al bicchiere in più, perché ti fa venire mal di testa; smettere di mangiare nutella dopo cena per evitare i bruciori di stomaco; desiderare di tornare a casa alle 22, quella rara volta che hai deciso di farti un’uscita. Queste cose qui, insomma.

Ma anche stare ore a ricordare le scorribande adolescenziali e le scellerate notti della giovinezza più incosciente, in compagnia degli amici con i quali hai condiviso quella stagione della vita, generando immancabilmente la noia dei presenti non coinvolti.

Devo ammettere che, quest'ultima avvisaglia di anzianità, mi capita ancora raramente. Non solo perché mi sento ancora poco a mio agio nel ruolo di vecchio lupo di mare, ma anche perché, a volte, mi sembra di doverli custodire gelosamente, quei ricordi, tenerli sigillati nella loro custodia.

Forse per paura che la luce del sole, in qualche modo, li faccia sbiadire.

Però può accadere che, stimolato della giusta compagnia, ripercorra alcune tappe della mia vita, nutrendo quel poco di ego che mi è rimasto nell’intestino, proprio come avrebbe fatto il miglior Manuel Fantoni.


Sì, anche la mia, più che una vita è stata un’Odissea. Ma soprattutto è costellata da una serie infinita di piccole e grandi fortune, che l’hanno trasformata irrimediabilmente in qualcosa di assolutamente magico.

Questo, spesso, incuriosisce i miei interlocutori che mi incalzano al fine di sciorinare aneddoti curiosi e storielle divertenti.

Perché effettivamente, fra un panino con mortadella diviso con Robert Plant, un paio di giornate di relax passate con Mike Patton, una mezza litigata con Ian Anderson, una chiacchierata con Genesis P-Orrige nella sua stanza d’albergo, devo ammettere che la mia strada ha avuto modo di incrociarsi con persone (e situazioni) piuttosto interessanti e, in questo senso, potrei individuare quale culmine del mio agorà esistenziale, in un giorno piuttosto preciso del calendario dell’anno 2007: l’undici luglio.



Il Traffic Festival di Torino rappresenta probabilmente i più elevati livelli di relazione con la musica live mai raggiunti in Italia. L’elenco degli ospiti che si sono susseguiti nel giro di poche stagioni sui palchi del TFT possono togliere il fiato e far girare la testa a molti amanti della musica pop, rock ed elettronica.

Arctic Monkeys, Lou Reed, Antony and the Johnsons, Franco Battiato, Nick Cave, Manu Chao, Emiliana Torrini, New Order… e poi devo smettere, perché ce ne sarebbero molti molti altri.


Erano gli anni nei quali io stavo a Torino con la mia band: i Sikitikis. E insieme alla mia band c’era anche il nostro furgone: un Ducato blu con 9 posti.

Il caso volle (ma forse non solo il caso) che il mio produttore Max Casacci, fosse anche uno dei direttori artistici del festival e che l’intero staff della factory per cui lavoravo (Casasonica) fosse coinvolto nell’evento.

In quanto possessore di furgone, il mio ruolo nel festival era chiaramente quello di runner. Un modo più rock’n’roll di dire autista.


le maschere in lattice che le ballerine di Aphex Twin utilizzavano sul palco

Durante la mia collaborazione - durata per diverse edizioni - mi sono ritrovato seduto accanto a veri e propri personaggi di culto. Ricordo, per esempio, quando attraversai la strada di accesso al Parco della Pellerina, insieme ad altre 5 persone, 4 delle quali indossavano una maschera di lattice con le sembianze di Aphex Twin.

Sotto quelle maschere, oltre a me, c’era Chris Cunningham, c’erano tre ballerine inglesi e quello senza maschera era, ovviamente, Aphex Twin. Per farci strada fra la folla a passo d’uomo, ci affacciammo tutti dai finestrini simulando il conato del vomito, rischiando di soffocare sotto il lattice, fra risate e caldazza.

Ma nulla è stato emozionante come quando mi hanno chiamato la mattina presto dell’11 luglio 2007 per dirmi che a mezzogiorno mi sarei dovuto fiondare all’aeroporto di Caselle per prendere i Daft Punk.


i Daft Punk sul palco di Torino il 12 Luglio 2007

Più che un’accoglienza fu un’operazione di intelligence. Dalla produzione mi dissero di preparare e stampare un cartello con scritto un nome in codice. Mi venne chiesto di eliminare dal furgone o dalla mia persona ogni riferimento al Festival: pass, magliette, adesivi. Nulla della mia presenza in aeroporto doveva ricondurre all’arrivo dei Daft Punk a Torino.

Quando i passeggeri provenienti dal volo per Parigi cominciarono a sfilare davanti agli arrivi, iniziai ad avvertire una certa tensione nei miei testicoli.

Una ragazza mi guardò da lontano e allargò il suo sorriso puntando un indice verso di me. Dietro di lei c’era un’altra ragazza e tre uomini, uno dei quali spingeva un passeggino con relativo infante.

Due di quei tre uomini erano fra le pop star più famose al mondo, ma passeggiavano per l’aeroporto con la serenità di un ricco vacanziere francese.

Viaggiammo fino al Hotel in un’atmosfera talmente serena che avevo paura si sentisse il mio stomaco sudare. I Daft Punk erano sul mio furgone. E io ero lì con loro.

Il giorno dopo, l’assistente mi chiese di accompagnarli al palco e mi chiese di assicurarmi che lo sportello del furgone fosse il più possibile vicino all’ingresso del camerino. Possibilmente attaccato, mi disse.

Io e i Daft Punk in borghese arrivammo così al Parco della Pellerina indisturbati, mi dissero che avevano fatto una bella passeggiata per la città, trovandola molto bella. Furono molto cordiali, con me. Una volta giunti, saltarono dal mio furgone al camerino in un passo.

Salirono sul palco quasi un’ora prima di iniziare il live. Mi chiesero di fargli strada e li portai fin sopra alla scaletta. Loro due, più due assistenti. Sparirono con due valige nel retro della grande piramide luminosa di quel tour galattico.

Dentro quelle valige c’erano i veri Daft Punk, quelli che tutti siamo in grado di riconoscere, quelli che hanno saputo alterare, più di ogni altro nel pop, l’anonimato in leggenda, il casco in espressione, la superficie in profondità.

Ma la vera grandezza dei Daft Punk si è sempre celata, in realtà, dietro la loro visiera. Ed era nella capacità di nascondere il loro genio dietro modi normali, quasi piatti e poco espressivi. La vera maschera era quella che permetteva loro di andare in un ristorante o sedersi indisturbati in una sala cinematografica. L’insospettabilità: ecco il loro più grande talento.



I Daft Punk - come Banksy, come Saliger, come Kubrik, come Mina - hanno scelto la strada dell’assenza per diventare immortali, hanno ribaltato il desiderio umano di apparire, elevandosi allo stato di divinità, per poter camminare nella via di un centro qualunque, spingendo un passeggino, in una sera di Luglio, come comuni mortali.

Hanno risolto il dilemma shakespeariano “essere o non essere?”, cambiando solo una vocale, trasformando la più banale delle congiunzioni nel fulcro che sposta il mondo, fornendo una risposta semplice ma potente come l’universo: essere e non essere.



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