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10 ANNI DI BELLE COSE

Immagine del redattore: alespedicatialespedicati

Aggiornamento: 21 nov 2022

La vera storia dell’ultimo vero disco dei Sikitikis.

Se Dischi Fuori Moda è stato uno tsunami, Le Belle Cose ha rappresentato la tavola da surf sulla quale ho cavalcato quella grossa onda.


L'immagine di copertina è tratta dall'opera Guardo Oltre di Federico "Crisa" Carta.

A fine agosto del 2012, durante gli ultimi giorni del mixaggio - nelle campagne ferraresi di Corlo - scrivevo questo sul mio diario personale:

Mi guardo nudo allo specchio. Non mi guardavo allo specchio da tre giorni. Non mi lavo da tre giorni. Sono magro da fare schifo. Ho perso colore e sto tornando verde. Ho la barba mal curata e un filo di occhiaie. Appaio adulto, le rughe, le tempie scoperte, i capelli bianchi sono sempre di più. Sono invecchiato in un anno come non ho fatto nei dieci anni precedenti. Non sorrido.




La lavorazione di quel disco fu un massacro, da molti punti di vista. La band era smembrata. La mia vita privata era smembrata. Il mio rapporto con Jimi era all’apogeo a causa della mia trance creativa accentratrice. Sapevo cosa volevo da quelle canzoni e le scrissi in preda ad una luminosa bulimia artistica.

Realizzai i provini sul tavolo della cucina della casa che condividevo con il mio fraterno amico Daniele la cui presenza, in quel periodo, fu una delle poche cose che mi tenne in piedi, il più importante supporto affettivo di quei giorni.

Inoltre, al contrario di quanto pensassi, non ero preparato per quello che mi sarebbe accaduto da lì a poco.


Ricordo perfettamente il momento in cui le pareti della vita mi crollarono addosso. Era la primavera di quell'anno e io e Manuele Fusaroli (funambolico produttore di quel disco, oltre che di Dischi Fuori Moda) andammo a farci due chiacchiere con Caterina Caselli con i provini del disco in mano. Insieme a noi anche Fabrizia Cerciello, allora discografica di molti progetti importanti della Sugar, che sarebbe qualche tempo dopo diventata la manager di Laura Pausini.

Caterina ascoltò i brani restituendoci un feedback entusiastico. Lei quel disco lo voleva produrre. Parlammo di soluzioni di arrangiamento, di promozione, ci spingemmo fino a parlare di cifre. Poi ci demmo appuntamento a una settimana più tardi, dopo una delle loro riunioni plenarie.


Di settimane ne passarono tre. Giorni e notti durante i quali non dormii in attesa che sul mio iPhone apparisse il numero degli uffici milanesi di Galleria Del Corso. Avevo 38 anni e sapevo che di quei treni non me ne sarebbero passati davanti molti altri.

Ad una ventina di giorni da quell’incontro decisi di prendere un aereo per Milano e presentarmi alla Sugar per chiedere spiegazioni sul loro silenzio. Tuttavia non avevo ancora capito quanto fosse assordante e determinato quel loro silenzio.

Così mi ritrovai nell’ufficio di Fabrizia Cerciello a fissarci muti per circa tre minuti.

Chi non avesse idea di cosa significhi stare per tre minuti in totale assenza di parola con una persona semi sconosciuta, può provare a sedersi di fronte (anche) ad un conoscente e far partire un cronometro.

Ma attenzione, potrebbero essere i tre minuti più lunghi della vostra vita.


Dopo quei 180 secondi ruppi il silenzio con un bene, grazie, arrivederci. Mi alzai, presi l’uscita, feci pochi passi nel corridoio e incontrai Caterina Caselli che mi guardò come avrebbe fatto una zia dispiaciuta di aver dato una delusione al suo nipote prediletto.

Mi disse che il progetto era stato accantonato per questioni di età.

La nuova filosofia della Sugar era diventata largo ai giovani. E noi, a 38 anni, evidentemente, non lo eravamo più.


Retto lo scossone della prima porta in faccia - per quanto scioccante - decisi di dare fondo alla vasta rubrica di contatti nel settore, che negli anni in giro per l’Italia avevo avuto modo di raccogliere.

La voce è poco interessante, il sound è un po’ sorpassato, non sono particolarmente incisivi, il progetto non rientra nei nostri piani. Queste alcune delle motivazioni che hanno portato Universal, EMI, Sony, INRI e altre etichette indipendenti a scartare senza indugi quello che per me era un disco che aveva molto da dire.


Le foto del primo shooting ufficiale furono scattate nel Laboratorio 1984 del pittore Federico Carta.

Ogni giudizio al quale mi sono sottoposto è stato come mettere il piede su una mina antiuomo, è stato come saltare in aria e dilaniarmi. Ogni volta.

Ci misi molti anni prima di rimettere insieme i pezzi, rammendarmi e provare a rimettermi in piedi. Anni di confusione, anni di convivenza con la frustrazione, attratto dal fantasma del fallimento come lo si è dalla paura di cadere.

Le Belle Cose divenne così il disco-non-disco, scaricabile in rete gratuitamente da Rockit.it con la pionieristica idea di monetizzare i click grazie alla vendita di spazi pubblicitari. Idea che ci portò al riconoscimento del PWI - premio web italiano - nel 2013.


Dopo aver portato per molti concerti quelle canzoni sul palco, dopo aver fatto quanto fosse nelle mie possibilità per portare il sorriso e il sole di quel disco in quante più persone possibili, mi spensi.

Le Belle Cose era stato scritto con la luce dentro di chi vede radioso il proprio futuro ed è stato suonato sul palco con il buio del cuore di chi ha provato a volare ma si è schiantato al suolo.

Eppure qualcosa di buono è davvero uscito, da quelle 11 canzoni.


Le Belle Cose è stato uno dei primi dischi in Italia ad aver messo a valore i web-click; è entrato gratuitamente in oltre 250.000 hard disk e dispositivi; è stato presentato su Rai 2, la domenica pomeriggio, davanti a 2,5 milioni di telespettatori segnando il record di ascolti stagionale di "Quelli che il Calcio"; ha generato tour con un indotto di almeno 400.000 euro. Il tutto senza un’etichetta discografica e con budget estremamente limitati.

Ma per fare tutto questo diedi fondo a tutte le mie energie e a tutte le mie risorse.


L'immagine di una Tv sintonizzata su Rai" durante la nostra esibizione a "Quelli Che Il Calcio".

Terminato il tour del 2014, io e la band non ci vedemmo per mesi. Ero in pieno esaurimento nervoso e mi misi a scrivere racconti, poesie, romanzi e il mio primo disco solista.

Arrivò dicembre e il nostro manager Fabio Carta ci chiese se avessimo voluto fare dei concerti nei giorni di Natale. C’erano diverse proposte da vagliare. Dicemmo di sì, c’era bisogno di monetizzare.




Ci ritrovammo in sala prove. Fu divertente rivederci dopo qualche mese con gli strumenti in mano. Così pensai che dopo le feste avremmo potuto rivederci in sala prove e buttare giù qualche pezzo.

Portai in sala prove i brani che avevo scritto per il mio disco solista, abbandonando di fatto quel progetto, per fare un nuovo disco - il quinto - con i Sikitikis. Che poi sarebbe stato l’ultimo, prima di Nave Madre - il disco che sarebbe uscito a nome SIKI.

Eppure, nella mia personale visione dell’universo dei Sikitikis, Abbiamo Perso (titolo che è tutto un programma) non è un disco della band.

I Sikitikis - quel gruppo, quel progetto - per me, si sono chiusi con Le Belle Cose, con quel meraviglioso sound che ha anticipato quello che diversi anni dopo sarebbe stato ribattezzato POPIT, quella forma fresca di pop italiano che qualche anno dopo avrebbe rivoluzionato il mainstream, mandando in pensione le vecchie cariatidi, per fare posto nelle classifiche ai nuovi cantautori indipendenti. Loro sì, giovani, interessanti, incisivi e, soprattutto, arrivati al momento giusto.

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