L'automobile nota come Fiat 750 è in realtà una Fiat 600 D, prodotta e venduta in Italia fra il 1960 e il 1969. Durante quel decennio irripetibile che viene romanticamente definito “I Favolosi Anni”.
Per i meno avvezzi alle auto d’epoca, la Fiat 750 appariva con la grazia di una Fiat 500 (quella vera, non quella che possiamo trovare oggi sotto i sederini delicati delle figlie della media borghesia) ma più grande, più… “da Signori”, dove per Signori intendo quelle figura che io associo a mio nonno: uomini distinti ed educati, che dai 18 anni in su non sarebbero mai usciti senza la loro giacca, la loro cravatta e il loro cappello Borsalino.
Quei signori che non importa, pure se hai le pezze al culo esci di casa a testa alta, con dignità. Ecco la parola: dignità. Parola in via di estinzione, così come in via di estinzione sono i Signori, quelli che oggi amiamo chiamare uomini d’altri tempi.
Sento molte donne lamentarsi del fatto che non esistono più gli uomini di una volta. Certo si potrebbe rispondere loro che non esistono nemmeno più le donne, di una volta, ma si entrerebbe in un discorso che non voglio affrontare qui. E non ora.
Ora voglio parlare del fatto che, in realtà, gli uomini e le donne d’altri tempi esistono. Sono pochissimi, ma esistono. Io per esempio ho avuto la fortuna di sposare una donna dai valori vintage. E questo mi piace molto.

Questi esseri umani meravigliosi mettono la gentilezza prima di ogni altra cosa, amano circondarsi di cose belle perché sanno che la sostanza, spesso, è figlia di un lavoro di forma. Alla comodità delle cose moderne preferiscono il piacere dello stile, rinunciano volentieri a un trattamento in un centro estetico in favore di una preziosa bottiglia di vino, magari rosso, magari ascoltando un po’ di musica. Magari ascoltando un po’ di swing. Come quello che suonava ogni sera nei club di tutta Italia Adriano Urso. Ogni sera finché ha potuto. Perché poi è arrivata la SARS-CoV-2 e quei club hanno dovuto chiudere.
Luoghi in cui si incontravano uomini e donne d’altri tempi, in un numero tutto sommato esiguo di esemplari (troppo esiguo), per nutrire la loro vita di bellezza e di gentilezza, lasciando fuori dalla porta tutto il bruttume dei supergiovani palestrati - con le loro sopracciglia ad ala di gabbiano e i tatuaggi con scritto “De Puta Madre”; l’orrore delle milf che vanno agli strip-tease maschili in pizzeria per la festa della donna; lo schifo delle feste di compleanno dei bambini da McDonald; la merda delle sale cinematografiche piene per ridere al ritmo della comicità becera e stantia dei cinepanettoni.
Mi immagino la fine di quelle serate, in quei club. Le coppie che tornano a casa brille, vogliose di fare l’amore; I baristi, con il papillon e il grembiule nero, che asciugano i bicchieri; l’ultimo tavolo occupato dal un ragazzo e una ragazza al primo appuntamento, nel tentativo di prolungare quella notte fino a chiudere tutto il cerchio.

Poi mi immagino Adriano che chiude il pianoforte dopo aver pulito con cura la tastiera, che si asciuga dal sudore, che si allenta la cravatta, si rimette la giacca, il soprabito. Che saluta tutti, uno per uno, con il loro nome o soprannome, che regala l’ultimo sorriso e se ne va. Apre lo sportello a controvento della sua Fiat 750 e torna a casa, nel silenzio romano, con mille note in testa e il suono antico della sua macchina - costruita negli anni in cui la musica era meravigliosa - a ricordargli che sì, anche lui è un uomo d’altri tempi.
Poi succede l’impensabile. Una pandemia. E con lei arrivano le scelte difficili: cosa deve sopravvivere e cosa può morire.
In un paese meno stronzo un uomo come Adriano Urso - e molti altri - sarebbe stato protetto come un prezioso gioiello. Ma da molto prima della pandemia.
In un paese meno coglione Adriano Urso sarebbe stato messo nelle condizioni di avere una vita dignitosa e poter studiare, insegnare e suonare supportato dai contribuenti in qualità di risorsa inestimabile per il benessere e la felicità della intera comunità.
E invece no, Adriano, tu non conti un cazzo. Non ce ne frega un cazzo dei club in cui suoni, non ci frega un cazzo di chi ti ascolta e men che meno della tua musica. E non ce ne frega un cazzo nemmeno della tua macchina senza alza-cristalli elettrici, senza sensori di parcheggio, né navigatore, né cambio automatico. T’arrangi. Anzi, Adriano, tu che sei un uomo d’altri tempi, sai che fai? Ti adegui a questi, di tempi, e fai qualcosa di davvero utile per dare da mangiare alla tua famiglia: prendi il tuo rottame e te ne vai in giro per Roma a portare il cibo - anzi, il Food - nelle case di quelli che per tutta la vita hanno lavorato davvero. Ok?
Ok. Come non detto. Adriano è pronto a profanare la sua Fiat 750 con un contenitore termico di Just Eat. La guarda con compassione e le promette che no, non sarà per molto. Non la costringerà a fare tutti quei chilometri per sempre. Ma è una vecchietta coriacea, e sa che resisterà. Ancora pochi mesi, poi saremo tutti vaccinati e si tornerà a godere di ciò che amiamo. Un po’ di pazienza e ci siamo.
E lei si impegna, lo porta ovunque, fra un colpo di tosse e uno sbuffo. Le sue sospensioni scricchiolano. I suoi fanali sono flebili come due candele.
Resiste, la Fiat 750 di Adriano. Resiste fino a quanto può, e a un certo punto si ferma. Non riesce più ad andare avanti. E stanca, è anziana. Dovrebbe trotterellare per portare Adriano al club, alla sala prove, a suonare o ad ascoltare gli amici. Non dovrebbe correre fra i sampietrini e le buche della capitale come una moderna auto da soma. Un po’ di rispetto. Eccheccazzo.
Ma Adriano ha il cibo che rischia di sfreddarsi nel contenitore e questo lavoro non lo può proprio perdere. Lei deve fare uno sforzo ancora, il lavoro non è finito.
Chiede aiuto, Adriano, a qualche passante. Basta solo una spinta. Questi motori semplici, robusti e scevri da ogni forma di elettronica moderna, si accendo a strappo con una piccola spinta, lui lo sa, sarà successo un sacco di volte. Fa la capricciosa lei, ma in fondo è fatta di metallo dolce.
E allora spingi, spingi e spingi, che poi mettiamo seconda e lasciamo la frizione: al tre!
E poi il dolore. Quel dolore che lo attanaglia da un paio di giorni adesso si fa più acuto. Troppo più acuto, però. Si annebbia la vista. Le ginocchia si schiantano sull’asfalto.
Così quel cuore generoso, che tanto amore ha dato alla sua musica, smette di battere, devastato da un mondo che gli ha detto che di lui, se ne sbatte il cazzo.
E tutti i concerti che avrebbe fatto, e tutta felicità che avrebbe regalato, e tutti gli applausi che avrebbe stappato, in un colpo solo, cancellati. Cancellati da un paese ignorante, da una classe dirigente incapace, da amministratori corrotti. Cancellati dal Grande Fratello, da X-Factor, da Barbara D’Urso. Cancellati per sempre. Per Sempre. Dalla faccia. Della terra. Infinite possibilità di futuro rase al suolo.
Perdonaci, Adriano. Perdonaci tutti. Ti chiediamo scusa per aver permesso che tutto questo accadesse, per non aver fatto abbastanza affinché questo paese comprendesse quanto sono preziose le persone come te.
Perdonaci, Adriano. Perché noi, da soli, non possiamo perdonarci.
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